mercoledì 15 dicembre 2010

Natale 1979

Improvvisamente un povero cristo ubbriaco si fece largo a spinte, rovesciò la bussola delle offerte, afferrò un mucchio di cartamonete, ci sputò e le lanciò in aria.


Il 24 dicembre 1979 passai la notte alla stazione Termini di Roma. Avevo poco più di vent’anni, e non ricordo esattamente da quale viaggio tornassi. Era tardi, il grande orologio metallico segnava le ore 21,15 e non c’erano più corse per il mio paese, l’ostello della gioventù aveva esaurito i posti e non avevo più una lira per potermi pagare un albergo. Ero stanco, senza nulla di buono su cui fantasticare, e desideravo solo ritornare a casa col primo treno locale del mattino.
V’era folla quella notte, moltitudine di gente che scendeva dai treni o partiva, i più giovani con gli zaini sulle spalle, i meno giovani con le valigie, le borse a tracolla, i pacchi, i fagotti. Erano quasi tutti allegri, vivaci, in compagnia di amici o parenti che li abbracciavano se erano tornati, o li salutavano calorosamente se partivano. Un gruppo di ragazzi nordici, dai lunghi capelli incolti e i giacconi larghi, s’era disteso dietro le porte, abbracciati a coppie, e si scambiavano di tanto in tanto teneri baci. Rari uomini o donne singole giravano per l’atrio, oppure sedevano nelle seggiole dei pochi bar aperti, guardando malinconicamente la gente che passava.
Camminavo lento, trascinando il mio zaino, guardando incuriosito quella variegata umanità generalmente piccolo borghese, come si diceva allora. Poche le persone che apparivano particolarmente facoltose; poche le facce da immigrati. Qua è là si poteva notare una vecchia pitturata baldracca, oppure il giovane che vive di espedienti o furtarelli, il gay in cerca di avventure.
Fui attratto da un capannello di persone. Ammiravano tutti una specie di altare, sulla cui sommità il circolo dei ferrovieri aveva allestito un presepe. Qualche donnetta si faceva largo e metteva un’offerta nella bussola. Gli uomini d’affari si soffermavano un momento, estraevano il portafoglio e lanciavano le loro banconote verso i primi gradini. I più commentavano la bellezza del presepe, anche se non aveva nulla di originale, dicendo che la grotta con i bovi e l’asinello sembrava vera, peccato che la culla di Gesù con Giuseppe e Maria rimaneva un po’ nascosta. Improvvisamente un povero cristo ubbriaco si fece largo a spinte, rovesciò la bussola delle offerte, afferrò un mucchio di cartamonete, ci sputò e le lanciò in aria. Gridava preghiere e bestemmie verso Gesù. Un ferroviere che faceva il turno al presepe lo afferrò per il colletto e lo trascinò via, non prima di averlo stordito con due schiaffi.
Continuai a camminare per l’atrio, incuriosito da tutte le facce, dietro le quali si celava una storia, un racconto, una vita. Ai sedili di marmo delle biglietterie chiuse c’era un ragazzo che leggeva un libro, aspirando furtivamente uno spinello; una donna anziana si era tirata su il cappotto e la gonna per aggiustarsi le calze; un signore distinto scrutava i passanti con un ghigno da assassino; un altro si asciugava un ciglio degli occhi, non so se per la stanchezza o qualche incontenibile nostalgia. Per un momento provai la sensazione di essere seguito da tre brutti ceffi con gli occhiali scuri. Forse la stazione pullulava di finti viaggiatori che circondavano le persone con l’intento di derubarle. Forse altri astanti erano agenti in borghese.
Quando entrai nei bagni vidi la parete degli orinatoi occupata da tipi loschi che esibivano il loro membro, oppure facevano finta di pisciare per spiare quello del loro vicino e cercare dei contatti. Andai ai gabinetti e misi una gamba più indietro, a rinforzo della porta, onde sbarrare l’accesso di un qualsiasi estraneo. Ma non feci in tempo ad uscire che un cinquantenne con la faccia da ragazzo malizioso mi offrì di passare il Natale a casa di amici. “Sto partendo” gli risposi brusco, e per evitare altri approcci mi diressi verso un treno, senza però salire. Quel tizio era sparito. Un vecchio che veniva avanti sorreggendosi sulle stampelle per un momento traballò e quasi mi cadde ai piedi, e siccome lo aiutai a rimettersi in sesto non la finiva più di ringraziare e lodarmi nel nome del Signore.
Ritornai nell’atrio, e andai a cercare un posto a sedere nelle sale d’aspetto. Queste erano così affollate di gente che dovetti aspettare un bel po’ prima che si liberasse un posto. Ero così stanco che non appena mi misi seduto e chiusi gli occhi caddi addormentato…
…mi pareva che stavo in paese, davanti al cinema, e dovevo attraversare la strada ma non ce la facevo, le mie valigie erano troppo pesanti e dalla curva poteva spuntare una macchina, e si era avvicinata una persona, di cui non riuscivo a vedere il volto, che mi voleva sfilare il bagaglio, e la voce di un altoparlante annunciava la partenza per Parigi.
Nel sogno capii di sognare. Avevo allentato la presa del mio zaino, che era scivolato a terra. Una vecchia malvestita mi stava davanti, in piedi, guardandomi con stupore. L’annunciatore dei treni ripeteva la partenza per Parigi. L’orologio segnava le 23,35. Allora volsi lo sguardo altrove e mi accorsi che durante il sonno qualcosa era cambiato nella sala d’aspetto. Come negli stabilimenti balneari quando alla sera le spiagge si svuotano e al posto dei bagnanti rimangono i loro simulacri in forma di rifiuti – lattine, cartacce, buste di plastica – così, in quella sala d’aspetto, partita la folla dei viaggiatori, il posto si era riempito di rifiuti umani: volti e corpi dall’indubbio aspetto di barboni, sbandati, dementi. Una puzza di corpi non lavati e malati gravava nel locale, e, insieme al fumo, lo rendeva irrespirabile. Regnava uno strano, patologico silenzio, interrotto ogni tanto da qualche frase insensata, un grido, un colpo di tosse catarrosa.
La cosa più spontanea che mi venne di fare fu quella di alzarmi, anche perché un disgraziato mi aveva appoggiato il capo alla spalla e il suo fetore mi sollecitava al vomito. Quasi corsi verso l’uscita, ma poi mi fermai e mi girai per guardar meglio quello strano girone infernale. Tutti i sedili erano occupati da reietti, accattoni maschi e femmine, vestiti di cenci, con scarpacce consunte, i capelli unti e spettinati. Qualcun altro stava seduto o sdraiato in terra, lungo le pareti o in mezzo allo stanzone. Quelli che dormivano ogni tanto fiottavano, agitavano le membra; quelli che stavano desti fumavano, tutti con un aria per niente tranquilla, con occhi pieni di odio o terrore, alcuni altercando con le ombre. Notai un signore che sembrava avere una aria perbene, ben pettinato e rasato, adorno di un cappotto marrone scuro, se non fosse stato per un paio di stivaloni da lavoro che calzava; teneva sulle ginocchia un gran cesto natalizio, da cui spuntavano torroni e bottiglie di spumante. Come io guardavo questa sciagurata umanità così sorpresi uno di quelli a guardarmi fisso, con una espressione sprezzante, come se volesse accusarmi da un momento all’altro di essere una spia, un nemico.
Entrò una ragazza scalza, i piedi neri di loto e ricoperti di piaghe, vestita di logori mutandoni maschili, una maglietta sudicia ricoperta da una giaccaccia sbrindellata. Teneva una sigaretta tra le labbra peste, e aspirava il fumo, alternando il gesto a quello di morsicarsi le unghie, con un tormento che doveva procurarle piacere. Aveva lo sguardo di una bestia braccata. Si fermò un poco al mio lato, così vicino che non potei non sentire la puzza rigettante del suo corpo, dei suoi stracci che avevano assorbito lo sporco e l’unto rancido dei luoghi in cui aveva dormito.
Un africano alto e magro, che finora stava assopito, improvvisamente scattò in piedi urlando: “Assez! Assez! Me laisser!” Ripeté il grido due o tre volte; poi sbottò in una risata atroce; poi si rattristò; poi s’alzò il bel loden verde, che indossava fin sopra la testa, e così uscì. Un uomo si era attanagliato alla vetrata, strisciando molto lentamente, il capo rivolto al soffitto. Un altro con la faccia da alcolizzato, gli occhi mezzi socchiusi, si alzò in piedi, fece due o tre passi barcollanti e poi crollò in mezzo alla sala, con le braccia spalancate come un morto. Dopo qualche minuto invece tirò su la schiena, rimanendo seduto e cercando di raggiungere con una mano il piede opposto.
La ragazza intanto aveva cominciato a farneticare. Diceva confusamente di amori finiti nell’odio, di uomini che aveva conosciuto e l’avevano lasciata incinta. La guardai a lungo negli occhi, e lei, accortasi di questo mio sguardo, alzò il dito indice accusandomi: “Sei tu che m’hai scopato! Che m’hai scopato e nemmeno m’hai detto grazie!” Volsi lo sguardo altrove, ma siccome la poveretta continuava nelle accuse, facendo finta di nulla, mi approssimai alla porta. Nello stesso momento entrarono tre poliziotti. Lei girò le accuse e l’indice verso uno di quelli, e il milite le afferrò le mani nelle sue mani guantate e la tenne immobile finché non riuscì a calmarla. Gli altri poliziotti facevano il giro del locale, battendo le mani per far rumore e destare i dormienti: “Avanti, è ora di uscire, è quasi mezzanotte e fra poco nasce il bambino!” Quelli che non davano segni di risposta e continuavano a stare nel loro posto, venivano presi e messi in piedi a forza. Se qualcuno si mostrava particolarmente pigro o recalcitrante veniva afferrato e trascinato fuori. In poco tempo il locale fu liberato, e un operaio sopra una macchinetta mobile passò a lavare e disinfettare.
Avevo osservato le operazioni di sgombero nascosto dietro una edicola chiusa. Agli occhi della Polizia non volevo certo dimostrare di far parte del povero branco di reietti, ma nello stesso tempo non volevo allontanarmi del tutto e avrei voluto sapere dove la folla di sciagurati avrebbe trovato rifugio. La Polizia li cacciava non solo dalla Sala d’Aspetto, ma dalla stessa stazione, dove i mendicanti almeno potevano disporre di un tetto, con forza se qualcuno provava a protestare. L’uomo col cesto natalizio, che si era messo sul capo come le popolane di una volta, in perfetto italiano supplicò un agente:”Se ci cacciate via dove… dove possiamo andare a festeggiare il Santo Natale…”
Il branco di reietti si ritrovò all’aperto, muto, senza neanche provare a concordare un programma comune. Per un po’ stettero fermi, addossati ad una siepe che li riparava dal freddo, ma quando si accorsero che le mani e i piedi si ghiacciavano, scompostamente, sempre muti e sciatti, si avviarono ognuno per proprio conto verso improbabili rifugi.
L’alto africano tirò fuori la faccia dal loden ed urlò:”Aller, aller!” cominciando a correre a zig zag, la testa alta come una gazzella. La ragazza dai piedi scalzi le corse appresso chiamandolo:”Jean Paule, mon amour!” L’uomo che camminava rasente i vetri procedeva in modo laterale, tenendo le palme delle mani in avanti, come avesse avuto un muro davanti a sé. Gli altri strascicavano i piedi, lenti, a capo chino, senza sapere dove andare, nella improbabile speranza di trovare un sottoscala, un buco, un qualsiasi riparo. Un ometto dalla pelle liscia di bambino, che prima non avevo notato, mi urtò il gomito: teneva al collo quattro o cinque pentole legate con lo spago, e camminando le cazzeruole sbattevano le une contro le altre, dando origine ad una primitiva musica.
Seguii per un tratto l’ometto, curioso di sapere dove andasse a riparare, quando calmò il vento e un leggero nevischio prese a scendere piano. Questa novità mi spinse verso piazza dell’Esedra. A quell’ora pochi passanti e rare macchine circolavano. Le strade, gli alberi, i bus parcheggiati cominciarono a coprirsi di un velo bianco. Raggiunsi via Nazionale, con le luminarie a luci intermittenti, i tappeti rossi sui marciapiedi, i vasi con gli abeti inghirlandati di festoni e palle color oro. Non c’erano appartamenti abitati in quella via, e non si sentivano voci di festeggiamenti in famiglia. Nelle vie laterali ogni tanto apparivano le insegne di alberghetti. Un grande hotel, prima del Museo d’Arte Moderna, teneva un vigilante in alta uniforme sul portone, impassibile come una statua. Mi sarebbe piaciuto arrivare a piazza Venezia e trovare l’Altare della Patria ricoperto di neve. Invece, proprio di fronte al Museo delle Cere, il nevischio divenne acqua e la temperatura addolcì. Deviai per via del Corso. Nelle viuzze laterali si notavano gruppetti familiari che tornavano a piedi dalla messa di mezzanotte, uniti sotto gli ombrelli. Prosegui ancora a piccole corse tra un portone e l’altro, finché non giunsi alla Galleria Colonna, il posto ideale per fermarsi a passare la notte, come d’altronde avevano fatto altri giovani, singoli o a gruppetti, dall’aspetto di artisti stranieri, sdraiatesi nei loro sacchi a pelo davanti alla pasticceria chiusa. Io mi appoggiai alla base di una colonna, con la faccia rivolta all’obelisco di piazza Montecitorio. Non faceva più freddo, e per quanto stremato mi parve che non dovessi addormentarmi. Invece mi riscossero le campane di non so quale chiesa alle prime luci dell’alba.

Gualdo Anselmi (scritto degli anni '80)

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