domenica 29 agosto 2010

Il campo delle Fornaci

Con questo racconto ho vinto ex aequo il Premio nazionale Roncio d'oro per la letteratura in lingua.
Per i termini dialettali poco conosciuti guardare il glossario in calce.





La strada di san Giorgio che porta alle Fornaci mi era sempre sembrata una strada da dipingere. Comincia a ridosso del Giardino del Conte, un bel giardino all’italiana, con vialetti di bossi, cespugli di rose e centenari cipressi, collegato per mezzo di un ponticello ad un castello seicentesco. Nel primo tratto urbano, a partire dai primi anni Sessanta, avevano costruito delle villette residenziali, che i proprietari ebbero cura di adornare con acacie e mimose. Quando frequentavamo le scuole Elementari gli ultimi giorni di scuola era usanza che le maestre ci facessero scrivere dei fioretti, e ci conducessero ad una passeggiata fino alla edicola votiva della Madonnella delle Fornaci, per leggere al cospetto dell’icona di Maria Vergine le nostre solenni promesse di rinunzia alle piccole vanità, che in verità potevano durare si e no un giorno.
La strada di san Giorgio era anche la strada delle nostre prime scorribande di ragazzi, quando seguivamo i bardasciotti più grandi in giro per le campagne, alla scoperta di tesori, che immancabilmente finivano con la razzìa di piante di frutta.
Da bambini a me e ai miei fratelli e sorelle ci piaceva andare al nostro podere delle Fornaci; ci sembrava una scampagnata, un piacevole gioco, tanto più che c’incontravamo i nostri cugini Sandro e Giorgio, figli di zia Anna, e dall’altra costa ci chiamava l’altra cuginetta Emilia, figlia di zia Jole.
Spesse volte, all’andata o al ritorno, pareva che ci eravamo dati appuntamento col carretto del padre di Emilia, Aldo Testa, della razza dei Ciocchetti, uomini silenziosi e pacifici, che fermavano il mezzo per farci salire. Peppe, il fratello anziano di zio Aldo, per non affaticare l’asinello, prima delle salite scendeva e conduceva la bestia a capezza, invitando gli adulti a fare altrettanto.
In quei tempi le strade di campagna erano ancora frequentate, e sempre s’incontrava tanta gente che andava fora a piedi, con le biciclette, coi carretti, con i trattori, con le apette, con le auto. Tutti quelli che andavano a piedi erano anziani in buona salute, legati a un mondo arcaico, abituati fin da bambini a percorrere cinque o sei chilometri al giorno.
Quand’eravamo bambini al nostro podere delle Fornaci c’era ancora la vigna ad arboreto, coi tutori di piante di olivi, di viscioli, di albicocche. C’era ancora una capanna per gli attrezzi e la pozza per attingere l’acqua, di cui si serviva specialmente lo zio di mamma, Angelo Gabrielli de Romanò, un vecchietto piccolo quanto arzillo, che aveva l’arboreto a confine.
Papà, siccome in campagna non ci poteva venire assiduamente a causa del suo lavoro, si raccomandava di stare attenti alla pozza, al traliccio dell’Enel posto a confine con zio Angelo, e alla ripida costa, dove crescevano fragole selvatiche.
Zio Angelo era un tipo svelto e buffo, e mamma ci raccontava che in gioventù era così collerico che un giorno che il somaro non ubbidiva ai suoi comandi gli prese il muso tra le mani e gli diede un mozzico che quasi gli staccò una orecchia.
Quando Papà era di riposo ci accompagnava lui alle Fornaci, con la Millecento Fiat; incontrando zio Angelo per strada lo invitava a salire, ma lui rifiutava, perché il tempo occorrente per salire lo riteneva sufficiente per giungere a casa. E difatti era uno di quei vecchietti mingherlini che correvano come il vento e noi bambini non riuscivamo a stargli appresso. Una sera che avevamo fatto tardi e ci apprestavamo a salire sulla Millecento, ecco che sbuca fuori zio Angelo. Papà gli offre anche quella volta un passaggio, giusto per cortesia, ma stavolta Romanò, senza dire né si né no si mette al posto di guida. “Ah, nun sapevo che avessi preso la patente” gli fa papà, “forza, guida tu!”. “Ma io nun so’ portalla sta macchina!” esclamò zio Angelo. Forse non era mai salito in un automobile e non sapeva distinguere tra il posto del conducente e quello dei passeggeri.
Quando qualche anno più tardi zio Angelo morirà e i mariti delle figlie decideranno di togliere la vigna e impiantarci un noccioleto, anche i miei genitori furono propensi a soppiantare la vigna con le nocchie, che allora avevano un buon prezzo e bisognavano di meno lavoro. Lasciammo comunque tutti gli olivi.
In quel periodo papà demolì la capanna, riempì la pozza di terra e sassi, costruì un casaletto con travi di legno e bandoni di latta per tetto, proprio sul confine, insieme al nostro zio Remigio Remigi, detto Mollò, marito di zia Anna. Nella nostra parte mettemmo le galline e una piccola fresetta a mano; nella loro parte zio Remigio, oltre le galline, mise anche un piccolo allevamento di conigli.
Papà, insieme al fratello Aldo, aveva una ditta di autotrasporti che portava merci principalmente nel nord Italia per conto di una agenzia locale. Era un lavoro duro, e ad ogni viaggio essi avevano bisogno di riposarsi due o tre giorni. Nel periodo estivo riusciva comunque a trovare il tempo per estirpare dai gradoni della costa le scopiglie e gli altri arbusti del sottobosco, onde dare respiro alle nocchie. Mamma tagliava l’erba sotto il nocchieto con la falce fienara, e un poco per giorno con l’ausilio di una zappetta, recideva alla base i frusti, i polloni in eccedenza che succhiavano la linfa senza dare frutto. A noi, che preferivamo il gioco al lavoro, c’invitava a darle un aiuto, perché “abbi der tuo che gnente te manca”. In quegli anni si raccoglievano le nocchie subito dopo ferragosto, direttamente dalle piante, abbassando i rami e mettendo le panocchie in certi saccoccioni che formavamo piegando un sinale legato alla vita. Quando il saccoccione era pieno lo riversavamo nelle balle. A terra si raccoglievano soltanto in una eventuale seconda passata.
La sera portavamo le balle nell’ara – un bel banco di tufo scoperto - e le svuotavamo li sopra, perché il frutto non del tutto maturo aveva bisogno di stare alla serena e di asciugarsi al sole. Durante il giorno bisognava ogni tanto smuovere il mucchio con un rastrello, sia per non far bruciare le nocchie in superficie, sia per aiutarle a staccarsi dalle panocchie. Con tre o quattro giorni di sole il frutto bruniva e si poteva mettere sul corvello e pulirlo definitivamente.
Divenuti più grandicelli, avendo incominciato a frequentare le scuole superiori, ci vergognavamo ad andare a piedi alle Fornaci e farci vedere dai nostri coetanei sui carretti o trattori. Il contadino, grazie ai nuovi modelli sociali che forniva la televisione, era fatto passare come un esempio negativo. Si compativano i vecchi, che non avevano avuta nessuna possibilità, ma non era ammissibile che un ragazzo potesse coltivare la terra come lavoro prevalente.

Qualche anno fa, dopo che per molti anni mi recavo al podere delle Fornaci con l’automobile, in uno di quei giorni afosi precedenti ferragosto, decisi di andarci a piedi, alle quattro della mattina, come i vecchi di una volta che partivano all’alba e alle dieci erano già ritornati in paese.
Lavorai fin verso le otto, fin quando non ne potei più dalla sete e decisi di raggiungere a rocchio la fonte di Lullurulù. Difatti scesi la costa fino al fosso di Gricciano, ormai asciutto da anni, e risalii dall’altra parte, nel punto preciso in cui si apriva il viottolo per la fonte.
In corrispondenza del viottolo trovai una recinzione metallica che impediva l’accesso, e lo stesso viottolo cancellato col morgano.
Aggirai l’ostacolo passando per l’orto di zio Aldo. I bardasciotti che di notte andavano a rubare i cocomeri o i meloni negli irrigativi della Bandita, venivano qui a consumare l’oggetto del loro reato. Vi venivano anche brigate di adulti, con l’occorrente per la panzanella, insieme ai loro amici emigrati a Roma e ritornati in vacanza.
Ritrovai la fonte di Lullurulù ricoperta di vegetazione selvatica, il rivolo quasi del tutto spento, la vasca tutta sporca, il sopravanzo che invece di incanalarsi nell’orto di zio Aldo – anche lui partito per gli alberi pizzuti - si disperdeva in un fossato. Considerai che bere a quella fonte poteva essere pericoloso, causa i disserbanti che ormai spargevano a tonnellate dovunque. Misi comunque le mani a conca e sorseggiai un poco, giusto per inumidirmi le labbra.
Negli infocati pomeriggi d’agosto, inforcate le biciclette o i motorini, una delle nostre mete di ragazzi in cerca di avventure, era quella di andare a bere nelle fonti sorgive di campagna: a Pisciarielli, a Gricciano, alla Piantacava. Non c’era contrada di campagna che non avesse una fonte d’acqua. Se oggi dovessimo fare una mappatura delle fonti del nostro territorio ne ritroveremmo ben poche: una agricoltura a carattere secondario e senza regole ha sconvolto il paesaggio. Ritornando a casa pensai che molte varietà di piante locali si sono estinte, come le mele cule, le prugne scùppolo, le pere de San Matteo, l’uva cornetta, la perzica spaccarella. Per non parlare delle erbe e dei fiori che non fioriscono più, degli animali e degli insetti che non si riproducono più.
Le stesse famiglie contadine, che svolgono in maniera prevalente il lavoro di agricoltore, si possono contare sulle dita di una mano. Tante famiglie del paese, che avevano trovato una occupazione nell’industria e nel terziario e hanno venduto i propri terreni ai forestieri, oggi si trovano senza lavoro e senza terra. Se dovessero chiudere una settimana i supermercati moriremmo quasi tutti di fame, dal momento che non sappiamo più sopravvivere con il lavoro della terra.
Oggi continuo a ritornare alle Fornaci più che altro per respirare un po’ di aria buona che per un guadagno. Il ricavato delle nocchie serve a mala pena a ricoprire le spese; il raccolto delle olive ci fa risparmiare l’olio per un anno.
Ritorno alle Fornaci per motivi sentimentali. Ad est guardo il paesaggio con il Soratte maestoso sul fondo, nonostante il brulichìo degli agglomerati urbani; ad ovest guardo il violaceo di quella parte del monte Cimino rimasta ancora selvaggia, senza case, strade, antenne, simile all’antichità dei millenni che ci hanno preceduto. Se guardo verso il paese non posso non notare le forme della speculazione edilizia - villette a schiera di cattivo gusto - che si stanno espandendo verso la strada della Madonnella, quartieri tirati su per soddisfare il bisogno economico di casa a certi abitanti di Roma che nella capitale non se la possono permettere.
Ma io non potrò mai dimenticare gli odori delle Fornaci, diversi seconde le stagioni, l’odore delle macchie di biancospini e delle mimose che crescevano ai lati dei viottoli, l’odore caldo della pioggie d’estate, l’odore frizzante delle tramontane. Non potrò dimenticare i colori, tra marrone ed oro, delle vigne d’autunno, dei cachi maturi contro l’azzurro del cielo, dei campi incolti dove cresceva bianca e gialla la camomilla. Porterò sempre nel cuore il rumore prosaico del traliccio Enel che annunciava la pioggia, i canti dei galli a mezzogiorno, il coro estenuante delle cicale, rotto ogni tanto dagli sgraziati ragli degli asini, gli ultimi canti dei contadini intenti al loro umile lavoro, frammisti ad invocazioni e bestemmie, il vociare assiduo e spensierato dei bambini e dei ragazzi che quaranta anni fa popolavano questi poggi.



Glossario

Alberi pizzuti: cimitero
Arboreto: vigna con tutori di altre piante e i filari adibiti alla semina di grano o legumi.
Bardasciotti: ragazzotti
A capezza: tenendo la bestia per le redini.
Alla serena: all’aria aperta di notte
Fora: in campagna
Morgano: aratro a dischi metallici.
Panocchie: fruttescenza che ricopre la nocchia
A rocchio: passare di traverso i campi, senza seguire la strada.



2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ascoltando la tua opera, sono ritornato indietro nel tempo; un tempo meraviglioso quello di oltre mezzo secolo fà.
quando ho capito di quello che si trattava, ho chiso gli occhi, ed ho avuto l'impressione di sentire i rumori gli odori di quel tempo.
Grazie Gualdo per avermi fatto provare questa meravigliosa sensazione; cosa non facile per una capra come me, abituato alla pubblicazione di notizie sintetiche. Sarà la senilità!!!

Lorenzo ha detto...

Ottimo esempio di romanticismo bucolico letterario. Purtroppo siamo in pochi a pensarla come te e, quindi, certi paesaggi, odori, sensazioni, rimarranno sempre più un ricordo da custodire gelosamente dentro di noi! Lorenzo C.