mercoledì 19 marzo 2008

Il caso Fabrica e la politica velleitaria

Non ho avuto mai molta simpatia per i partiti italiani.
Fin dai primi anni Settanta del secolo scorso, ossia da quando ero adolescente ed ho cominciato ad avere dei barlumi di coscienza, il mio giudizio sui partiti dell’allora centro destra era totalmente negativo. Anche se non avevo abbastanza esperienze dirette e profonde cognizioni, li sentivo già come cosche mafiose che amministravano per i propri tornaconti, costringendo il popolino a servirli per avere in cambio uno straccio di lavoro. Salvavo il PCI, poiché mi sentivo di condividere una ideologia di sinistra senza essere un comunista. Ma non mi entusiasmava il PCI. La sua classe dirigente, pur composta da tanti politici preparati ed onesti, stava già allevando quei professionisti burocrati, tanto simili ai democristiani.
Mi entusiasmava - mi entusiasma ancora – un certo tipo di letteratura, la poesia autentica, la cultura della tradizione popolare. C’è qualcosa di profondamente umano nella saggezza di un vecchio contadino. Ma la civiltà contadina fu un mondo che la classe politica repubblicana italiana ha sempre disprezzato e non ha saputo e voluto migliorare negli aspetti negativi, ma togliere di mezzo: per sempre.

Ed eccoci qua, in una civiltà tecnologica
che ha perso gli odori dei fiori e non conosce i nomi delle piante e non saprebbe sopravvivere una settimana senza la benzina e i supermercati.
Dopo la morte di Berlinguer il PCI, pur distaccandosi progressivamente dall’ingerenza sovietica, diventava una socialdemocrazia autoreferenziale, non del tutto estranea a quel sistema affaristico che è pubblicamente emerso con le indagini del pool di Milano nei primi anni Novanta.
Non ho mai servito i partiti, ed ogni volta, come tanti milioni di disperati italiani, il mio voto non è stato a favore ma contro i governi. Tuttavia, già verso la fine degli anni Ottanta cominciai ad occuparmi delle scellerate scelte amministrative di Fabrica di Roma. Il mio modo di far politica non piaceva e non piace tuttora a coloro che intendono la politica e i partiti come mezzo per promuovere il proprio egoismo. Cercare di documentarsi, seguire le attività deliberative è considerato ancora un “rompere i coglioni”. Come possiamo dire che il tal dei tali, quella certa sezione fa politica, se non acquisisce documentazione e non esercita il diritto di critica o la libertà di proporre iniziative?
Qui a Fabrica - e probabilmente in tutti i paesi e le città – generalmente s’intende per politica fare le liste amministrative un mese prima delle elezioni. Raramente e senza continuità si è approfondita una problematica. Anche perché il geometra che governa Fabrica da quasi vent’anni usa la tattica dello “sfinimento”, ossia di fronte alle richieste orali e scritte dei cittadini non risponde, fa finta di non capire, fornisce documentazione impropria, e spesso dopo mesi e mesi. Personalmente ogni volta che intendo ottenere documentazione e risposte scritte devo minacciare di ricorrere alla Magistratura. Lo stesso consigliere di minoranza, Luciano Balzerano, soltanto in questi giorni, ossia dopo 9 mesi di solleciti, ha avuto una parziale documentazione non datata a fronte di una serie di richieste presentate nel giugno scorso. Ma le segreterie provinciali, le segreterie regionali, che tutto sanno, perché non intervengono?
La piccola casta paesana
tutta presa a seguire i lavori dei propri palazzi o di quelli degli amici, deve la sua esistenza alla disorganizzazione della parte avversa, di un certo lassismo o bonarietà del paesano, se non addirittura a certe frange di inciucismo opportunista.
Altri paesi hanno espresso Sindaci, presidenti di provincia, assessori regionali, parlamentari che si sono fatti valere e hanno fatto in modo, tramite un giusto sistema di relazioni istituzionali, di migliorare il proprio paese. Fabrica, a parte il caso della famiglia Cencelli, tra la fine del 1800 e il periodo fascista, che ha espresso ben tre parlamentari e due presidenti di provincia, dal secondo dopoguerra non ha avuto mai un forte rappresentante nelle istituzioni alte. I rappresentanti politici dei partiti qui si vedono di sfuggita ogni cinque anni, fanno generiche promesse e poi si defilano. Ai politicanti locali questa situazione sta bene, poiché, probabilmente, gli reca qualche privato vantaggio. Se il caso Fabrica fosse stato seguito a Viterbo o Roma, sul Parco Falisco ed altre questioni si sarebbe aperta come minimo un’inchiesta della Magistratura. Invece niente. Gli stessi cittadini sono ormai rassegnati a subire. Capiscono che votare non serve a niente, e non votare non muta la natura del potere politico.
Il problema della politica italiana è la selezione dei quadri dirigenti. Non vanno avanti i migliori, i più intelligenti, i più motivati, ma i più maneggioni e ossequiosi nei confronti della classe dirigente.
Chiunque vinca alle prossime elezioni politiche se non cambierà radicalmente il rapporto tra cittadini e partiti, lo scontento continuerà a montare, il partito ombra degli astensionisti continuerà a crescere e troverà il veicolo più naturale nel movimento di Beppe Grillo.

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