sabato 19 luglio 2008

Fabbrica d'i cojoni, Fabrica della dignità

Fabrica di Roma, tra gli anni quaranta e sessanta del secolo scorso, veniva appellata col blasone di Fabbrica d’i cojoni, perché i suoi abitanti si mostravano apatici, menefreghisti, privi di uno spirito di solidarietà o di cooperazione, pronti a seguire qualsiasi paraculo che, promettendo facili ricchezze, invariabilmente li fregava senza scampo. Basti pensare al periodo della coltivazione delle pesche, iniziata da Nicola Todini, Giuseppe Carofei e altri agricoltori vivaci, finita ingloriosamente per l’incapacità di creare sinergie tra amministrazione comunale e produttori agricoli.
Oggi il paese ha raddoppiato i suoi abitanti, e quasi tutti i figli dei contadini di una volta si sono venduti i terreni, acquisiti dai loro nonni col duro lavoro, per comprarsi una bella casa e apparire benestanti. Signori virtuali, giacché in questo strano paese il ciclo delle industrie, cominciato negli anni sessanta del Novecento, sta smobilitando baracca e burattini per spostarsi in altre nazioni dove la manodopera è a basso costo.
I fabrichesi, dunque, al presente non sono operai, non sono artigiani, non sono addetti al turismo.
E allora che cosa sono, direte voi? Non lo so. So soltanto che una buona parte della cittadinanza, qui giunta negli ultimi venti anni trovandovi delle case a buon prezzo, a tutt’oggi lavora altrove e non si interroga sul fatto di risiedere in un ameno dormitorio; l’altra parte, quella per così dire autentica, ossia di antica generazione, ha smarrito la sua identità e crede di vivere in una cittadina, anche se usufruisce di pubblici servizi simili a quelli dei villaggi africani e paga le tasse più alte della provincia.
La responsabilità della distruzione dell’agricoltura e del mancato decollo dell’artigianato e del turismo è imputabile alle Giunte amministrative che hanno governato il paese dal secondo dopoguerra in poi, in particolare delle ultime.
L’agricoltura poteva avere una rinascita con la tenuta del Quartaccio, 70 ettari a sodivo e 100 a bosco, che dal 1947 sono stati “regalati” alla famiglia Capati di Civita Castellana. Basti pensare che l’affitto che pagavano fino a pochi anni fa era lo stesso del 1947: circa 1 milione di lire annue. Nel 2005 il sindaco Scarnati, a un anno dalla scadenza di un fasullo contratto di affitto con la famiglia in questione, decise di entrare in possesso subito di metà del terreno coltivabile, circa 22 ettari, cedendo gli altri 35 ettari ai Capati per 35 anni, escludendo ancora una volta i fabrichesi. (vai sulla pagina e clicca su IN PRIMO PIANO).
Adesso i 35 ettari non si sa bene a chi sono stati concessi e con quali criteri. L’artigianato fabrichese, nonostante la valentia di fabbri, meccanici, falegnami, non ha mai avuto un aiuto concreto, e basti pensare che diverse ditte importanti si sono trasferite nella zona artigianale di Carbognano, non avendo una zona ad hoc in paese.
Il turismo è inesistente. I sindaci che ci hanno governato non sono stati capaci ad acquisire la Rocca Farnese quando i Cencelli la cedevano gratuitamente; non hanno voluto acquisire il palazzo Cencelli con fondi gratuiti della Regione Lazio e farne sede di museo. (vai sulla pagina e clicca NEWS). Non vogliono tuttora adibire una parte del palazzo a Museo cittadino; non sono stati capaci a prendere la tenuta di Fàleri Novi (quella entro le mura romane) quando apparteneva ai Sebastianini, magari permutandola con la tenuta del Quartaccio.
Insomma, l’incapacità di governare un paese e condurlo ad un progresso sta penalizzando gravemente la cittadinanza fabrichese, in particolare i giovani, che non trovano sbocchi lavorativi. Dai dati pubblici emerge che la disoccupazione fabrichese è un problema serio, che va affrontato immediatamente, parimenti alla densità abitativa e alla immigrazione tra le più alte della provincia.
Chi non conosce crisi è l’attività edilizia, nella maggior parte animata da ditte forestiere, che costruiscono dei piccoli quartieri, affidano i lavori degli interni ad artigiani di altri paesi e poi se ne vanno. La cosa da sottolineare è che diversi sindaci e assessori del recente passato, mentre hanno mostrato inettitudine per i bisogni collettivi, si sono mostrati bravi imprenditori edili.
Altrettanto si sono mostrati bravi esattori, tant’è vero che da vent’anni riescono a prelevare dalle tasche dei fabrichesi il tributo per un depuratore inesistente e hanno portato le tasse locali ai primi posti della provincia. Tutto ciò grazie ad una certa passività dell’opposizione, che non riesce a trovare una concordia interna e l'energia per informare i cittadini di quanto succede nelle "segrete stanze".
Insomma, Fabbrica d’i cojoni, menefreghista, pavida, priva di uno spirito civico, che mugugna sotto sotto e poi fa la riverenza ai capetti locali, oppure Fabrica della dignità, della cultura della legalità, solidale e propositiva? Ci sono molti segnali che mi fanno capire che la Fabbrica d’i cojoni è un retaggio di un passato viscido e ipocrita, che usava gli apparati religiosi per avere i consensi e governare alla democristiana, mentre la Fabrica della dignità sta emergendo piano, senza clamore. Esorto quindi i giovani tra i 25 e i 35 anni a non avere timidezze o ritrosie e farsi avanti e costituire insieme quella nuova classe dirigente che dovrà spazzare via quei due o tre ras locali sessantenni che hanno messo le mani sul municipio da oltre vent’anni, usano i piani regolatori come specchietto per le allodole e incutono una immotivata soggezione. E’ in gioco la qualità della loro vita, di tutti. Ah, se poi i giovani fabrichesi vogliono emigrare in Australia e lasciare il paese ai rumeni, allora tutto questo mio argomentare non ha senso. (Nella foto uno dei tre "parchi" cittadini, 500 mq circa)

1 commento:

Anonimo ha detto...

ma che te sei bevuto?