lunedì 11 agosto 2008

Che bello una infinita vacanza!

La vacanza è un sacramento fondamentale di questa civiltà edonista, e chi non ne gode viene considerato come un poveraccio, oppure un vecchio rincoglionito. Se un single, una coppia con o senza figli, non va in vacanza, si sente in colpa e additata al pubblico ludibrio. E’ così che si creano i forzati della vacanza, magari precari cronici che smaniano di andare in vacanza anche una sola settimana.
Mi sono sempre domandato che senso abbia spostare la propria carcassa per distenderla al sole in una località vacanziera e spegnere quasi del tutto l’intelletto nell’ozio da ombrellone. La risposta è nel dimostrare lo status simbol, nel fatto che anche l’esibizione della vacanza, come l’automobile, la casa, il coniuge, è un feticcio del proprio successo. Più la vacanza è lunga, costosa ed esotica, più è forte la conferma della propria realizzazione nella vita. L’abbronzatura violenta ne è il tacito ma universale segno. Quante famiglie partono per capitali famose, prendono aerei o navi da crociera, e poi, in realtà, non hanno mai messo piede nel proprio museo cittadino o nel sito archeologico più vicino.
Quand’eravamo più giovani e ci animavano maggiori illusioni, anche non avendo un impiego e un reddito fisso, bramavamo l’estate per andarcene in vacanza.
Ce ne andavamo in vacanza con mezzi di fortuna, con un sacco a pelo e con pochi soldi, non già per godere degli alberghi di lusso ma per un senso dell’avventura e della scoperta fisica del mondo.
La differenza tra la nostra generazione, di giovani nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e quella odierna è nel gruzzolo che ci portavamo: per noi, i pochi soldi che tenevamo nascosti in un sacchetto dentro le mutande, erano frutto di lavoretti stagionali; mentre i ventenni d’oggi, ch’eppure non hanno alle spalle famiglie più ricche delle nostre di allora, partono per le vacanze con le carte di credito di mamma e papà. E poi noi, che eravamo cresciuti al tempo del sillabario, eravamo davvero curiosi di conoscere le città, i musei, i siti archeologici, le ragazze straniere.
La vacanza giovanilistica divenne una moda già verso la metà degli anni Ottanta, quando alla stazione Tiburtina di Roma partivano interi vagoni di borgatari che dicevano di andare in vacanza in Spagna o in Olanda ma che in realtà avevano la meta di quei paesi perché colà vi era una maggiore libertà di commercio o di consumo di sesso e di droghe leggere.
Quanto sarebbe bello vivere la vita come una infinita vacanza, andarsene a spasso per il mondo come il poeta Valery Larbaud e raccontare le proprie elettive esperienze, lontano dalle meschinità italiane, dall’ipocrisia viterbese, dall’inerzia mentale animata solo dall’invidia e dall’opportunismo.
Ma bisogna essere miliardari come fu Larbaud per vivere una vita sublime ed aristocratica che se ne frega di Berlusconi e Veltroni, delle giunte ladresche locali e delle inerti opposizioni. Per noi, che non siamo più anagraficamente giovani e viviamo con il retorico “sudore della fronte”, oggi anche la vacanza ci appare un sacrificio, perché sottrae risorse ai risparmi e ci impedisce di attuare dei progetti a lungo termine. Vediamo i giovani rincorrere i falsi piaceri della vita, non prendere coscienza della società in cui vivono e non impegnarsi minimamente per cambiarla, quasi davvero come inadeguati dandy in una troppo abusata vacanza.

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