venerdì 27 febbraio 2009

Preistoria della biblioteca di Fabrica di Roma

Prima dell’istituzione della biblioteca comunale, nei primi anni ’80 del passato secolo, a Fabrica di Roma esisteva una biblioteca delle scuole elementari, che svolgeva una funzione di lettura senza prestito per gli utenti della scuola. In altri municipi più grandi, o meglio organizzati, come per esempio in Civita Castellana, la biblioteca della scuola elementare svolgeva una funzione di prestito per tutti i cittadini.
Non ricordo esattamente l’anno, ma doveva essere il 1968 o ’69 quando anche a Fabrica la biblioteca scolastica fu aperta ad una pubblica consultazione e prestito. La gestivano a turno, per pochi giorni a settimana, i maestri Giovanni Cencelli e Romolo Malatesta. Avevano sistemato i libri in una apposita aula a pianterreno, alcuni in vecchi armadi, altri disposti sopra alcune cattedre in disuso. Ricordo una discreta affluenza di pubblico, studenti ed impiegati, ed anche qualche attempato contadino che, con una certa goffaggine e timidezza, chiedeva di saperne di più su quegli scrittori di cui aveva imparato a memoria alcune poesie nella sua lontana età scolastica.
Presi a frequentare la biblioteca più per curiosità che per la passione dello studio. Era una alternativa al caos del salone parrocchiale, alla botteguccia del barbiere dove ci intrufolavamo per carpire i discorsi dei grandi, ai caffè dove regolarmente ci cacciavano a pedate se solo vedevano un ragazzino trattenersi tra i tavoli. Se d’estate potevamo passare le giornate a zonzo per le campagne, nelle fredde giornate d’inverno che non riuscivamo proprio a starcene costretti sui libri dell’istruzione obbligatoria, la biblioteca, paradossalmente, divenne un punto di riferimento per tutti i riottosi alle discipline scolastiche. Fu proprio in quella ampia, scarsamente illuminata e fredda aula, che cominciai il mio apprendistato di lettore indefesso.
I maestri Giovanni e Romolo consigliavano a tutti il libro “Fontamara” di Ignazio Silone, come fosse stato un testo rivoluzionario e un nuovo vangelo. Il maestro Giovanni era taciturno e discreto, quanto improvvisamente nervoso, e credo amasse dedicarsi più alla campagna che all’insegnamento; mentre il maestro Romolo, che aveva anche fama d’artista, si lasciava andare a convulse discussioni intellettuali con gli utenti più colti. Tra questi c’era un giovanotto di circa vent’anni, Sergio Bassi, che aveva la bottega da tappezziere sotto casa, in via Alberto Cencelli. In quel tempo leggeva molti libri, suonava la tromba nella banda municipale e meditava un lavoro impiegatizio. Con noi ragazzini scherzava e parlava volentieri di tutto. In ogni stagione scuoteva il silenzio pomeridiano coi suoi lunghi e ostinati fraseggi musicali, che invadevano ogni contrada del paese, specialmente vicolo dell’Ariola, dove abitavo io allora, penetrandovi attraverso una finestrella del cesso.
I maestri conduttori della biblioteca – che peraltro non erano stati miei docenti – quando chiesi qualcosa da leggere, mi diedero un libro che piaceva a tutti i ragazzi tra gli undici e i tredici anni, la mia età di allora, “Storia di Pipino, nato vecchio e morto bambino”. Era una cosa comica, una lunga barzelletta, uno spasso che non m’interessava. Volevo leggere “Fontamara”, un libro per adulti, non le solite rassicuranti favolette. Quando qualche tempo dopo riuscii a leggere “Fontamara” dissi a me stesso, “ecco, questo libro è come raccontasse il mio paese ai tempi dei miei genitori, dei miei nonni”. A quei personaggi umiliati e offesi dalla miseria e dalla soggezione davo il volto di certi paesani, anziani contadini, che, con una espressione tra il tarpano e il bolscevico, sfilavano per la festa del primo maggio. Nel frattempo avevo letto altri due o tre libri, di cui ho perso memoria. Me ne ricordo però uno, di cui mi sfugge titolo e nome dell’autore – forse una specie di diario di un letterato che non ebbe mai fama - che mi parve vero quanto “Fontamara”, perché nei racconti di guerra partigiana vedevo sovrapporsi i racconti reali di mio padre quando a casa narrava i fatti della seconda guerra mondiale a cui aveva partecipato.
Non ricordo con precisione se la mia esperienza di lettore fu volontariamente interrotta per qualche altro interesse passeggero o a causa della sopraggiunta soppressione del pubblico servizio, che inesorabilmente avvenne due o tre anni dopo. Di quella mia iniziazione alla lettura adulta devo ricordare con molto interesse “L’attenzione” di Alberto Moravia e due libri di Vitaliano Brancati, “ Don Giovanni in Sicilia” e “Paolo il caldo”. Il libro di Moravia mi schiuse per la prima volta la psiche complicata degli adulti che avevano una vita interiore. Specialmente “Don Giovanni in Sicilia” mi spinse a riflettere assiduamente e senza soluzione al conflitto interiore di un giovane dilaniato tra l’amore ideale e l’istinto sensuale. Non ho più riletto questi tre libri, e se devo dire la verità di “Paolo il caldo”, ho una memoria piuttosto vaga, non ho visto neanche il film con Lando Buzzanca, e mi pare fosse una specie di sviluppo ulteriore e più paradossale del tema del Don Giovanni in Sicilia.
Quando la biblioteca chiuse ritornammo a bighellonare tra le campagne e il paese come avevamo fatto da quando avevamo acquisito la facoltà di uscire da soli, tenendoci ben distanti dai libri noiosi e pesanti delle scuole obbligatorie. Doveva passare ancora un decennio prima che l’amministrazione comunale decidesse di aprire un capitolo di spesa per l’istituzione permanente di una biblioteca comunale. In quel lungo frangente, mentre il mio rapporto coi libri istituzionali e con le autorità scolastiche si inasprì ulteriormente, mi si apriva il sipario della poesia, una forma alternativa ai conformismi giovanilistici. (Nella foto l'edificio scolastico verso la fine degli anni '50)

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